La moda può essere crudele e criminale, ma ancora più crudele e criminale è chi la sostiene acquistando capi di abbigliamento che comportano la sofferenza animale. 
Eppure le alternative esistono, più difficile forse è essere sicuri che quando si acquista un capo questo sia davvero cruelty free. In Svizzera dal 2013 esiste l'obbligo di dichiarare sulle etichette delle pellicce e dei capi di pellicceria informazioni riguardanti la specie animale, la forma di detenzione, l'origine e il modo di ottenimento del pellame; quest'obbligo però non si applica agli esemplari domestici delle specie equina, bovina, suina, ovina e caprina e neppure ai lama e agli alpaca. Una Direttiva europea impone inoltre di dichiarare sulle etichette se nei capi ci sono parti di origine animale (questo vale anche per l'utilizzo di piume, cuoio o di bottoni fatti con le corna). Tuttavia non sempre i produttori rispettano questi obblighi di legge e le etichette sono incomplete, come fare allora a capire se un capo è di pelliccia vera? Il costo non è sempre rivelatore, si trovano giacche con inserti di pelliccia vera anche a poco prezzo. Un accorgimento può essere quello di soffiare sulla pelliccia: i peli veri si inclinano di lato e mostrano una lanetta alla base dell'attaccatura, quelli di pelliccia sintetica sono invece più radi e meno soffici e, a causa del carico elettrostatico, rimangono più attaccati al supporto di stoffa.
La pelliccia vera viene inserita insieme alla pelle dell'animale, per cui se la si tira si vedrà sotto il cuoio, mentre in quelle sintetiche si vede il tessuto. Infine, se già acquistata, bruciare qualche pelo ne rivelerà senza ombra di dubbio l'origine: la pelliccia sintetica emana odore di plastica, quella animale di capelli bruciati.
La cosa più importante da ricordare però è che la moda la facciamo noi. Per non sostenere i mercati che causano sofferenza ad altri esseri viventi, basta diventare consumatori consapevoli e non acquistare i loro prodotti.

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L'obiettivo degli esperimenti all'Università di Friborgo è quello di provare a sviluppare una terapia curativa contro le dipendenze, mediante il processo di stimolazione cerebrale profonda, dopo aver somministrato ai primati delle dosi di cocaina. Molti studi sono già stati effettuati in vari Paesi e ci sono un'infinità di dati che provengono dagli studi sugli esseri umani. Il cervello umano è l’organo bersaglio delle sostanze d’abuso, ma è anche l’organo che più presenta differenze al variare delle specie animali!  
Ecco sinteticamente qualche esempio delle varie metodologie scientifiche senza animali usate e disponibili in questo ambito:

Neuropsicologia
Studia le funzioni e le attività del sistema nervoso in quanto manifestazioni esterne dei fenomeni mentali. Studia le correlazioni tra fenomeni psichici e fenomeni biologici.
Elettrofisiologia
È un ramo della fisiologia che studia i fenomeni dell'organismo dal punto di vista elettrico sia in condizioni normali sia a seguito di un impulso esterno.
Emodinamica cerebrale
Indaga il flusso sanguigno e l’attività metabolica delle varie aree del cervello, ad esempio grazie alla Risonanza Magnetica funzionale (fMRi) e la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET).
Tecniche di imaging
Speciali radiografie in grado di esplorare e fotografare le strutture cerebrali, ma anche il loro funzionamento.
Tecnica SPECT - Single Photon Emission Computed Tomography
Si utilizzano isotopi ad emissione di raggi gamma, rendendo possibile visualizzare la distribuzione del tracciante radioattivo e studiare così il metabolismo cerebrale di due soggetti dipendenti e di un soggetto sano (ricostruzioni SPECT in sezione assiale).
Considerando che la legislazione svizzera in materia impone l'utilizzo di metodi senza animali quando questi sono disponibili, tutto questo ci sembra sufficiente per dire BASTA a queste crudeltà che non hanno neppure una giustificazione "scientifica"! 

Alzheimer: limiti dei modelli animali e nuove prospettive di ricerca
Dott.ssa Francesca Pistollato - Commissione Europea, Centro Comune di Ricerca, Ispra (Italia)

Questo è solo un estratto, l'articolo completo lo trovate alle pagine 10-15

 

Attualmente quasi 50 milioni di persone nel mondo soffrono di demenza, con costi globali per la spesa sanitaria pubblica stimati intorno ai 900 miliardi di dollari l'anno.  
Ad oggi esistono solo quattro farmaci approvati per il trattamento dei vari stadi della malattia; tali farmaci offrono benefici minimi di carattere sintomatico e solamente in una minoranza di pazienti, ma nessun beneficio a lungo termine.
La maggior parte della ricerca farmacologica per l'Alzheimer si è focalizzata sulle proteine beta amiloidi. L'ipotesi amiloide ha portato la comunità scientifica a investire notevoli risorse nello sviluppo e la creazione di nuovi farmaci atti a contrastare l'accumulo di tali proteine. Tuttavia si è scoperto che la formazione e l'accumulo delle proteine amiloidi potrebbe non essere la causa scatenante della patologia, ma semplicemente una delle caratteristiche o una conseguenza della patologia stessa. 
Un altro tratto tipico della sindrome di Alzheimer è l'accumulo della proteina tau fosforilata, che viene indotta dalle placche amiloidi e può determinare una distruzione delle funzioni neuronali. Tuttavia, a dispetto di quanto si credesse, l'accumulo di proteina tau appare progredire anche in seguito alla rimozione delle placche amiloidi. Tutto questo indica che, ad oggi, molti degli aspetti molecolari e cellulari della sindrome di Alzheimer non sono ancora del tutto compresi.
Una delle possibili cause del fallimento nella ricerca sull'Alzheimer potrebbe ricondursi ad una sovrastima e sovra utilizzo proprio dei modelli animali. I topi transgenici comunemente utilizzati per studiare l'Alzheimer possono mostrare alcune delle caratteristiche della patologia, tuttavia questi modelli animali presentano anche dei limiti evidenti; per esempio non sono in grado di riprodurre la complessità sia clinica che patologica della malattia così come noi la osserviamo negli esseri umani.  
Altro aspetto rilevante è che i modelli animali possono anche contribuire a generare risultati falsi negativi che possono portare all'esclusione dai trial clinici di composti terapeutici potenzialmente efficaci per l'uomo. I modelli di topi transgenici attualmente disponibili sono stati creati principalmente come surrogati dell'Alzheimer precoce, di origine familiare, o collegato a fattori di tipo genetico, che rappresenta la tipologia di Alzheimer meno prevalente (circa il 3% di tutti i casi di Alzheimer). Al contrario, la forma più diffusa di Alzheimer (97%) è l'Alzheimer a insorgenza tardiva (dopo i 65 anni di età), o anche definito sporadico poiché non ereditario e non può essere ricondotto ad un qualche gene specifico.
Numerosi sono i fattori legati allo stile di vita che determinano il rischio di sviluppare l'Alzheimer e il consolidamento della patologia stessa, fra cui l'età avanzata, la dieta (ad esempio, diete ricche di grassi saturi e di proteine di origine animale e povere di cibi di origine vegetale), la scarsa attività fisica, una ridotta stimolazione cognitiva, un basso livello socio economico, un basso livello d'istruzione, una scarsa qualità del sonno, una disbiosi cronica intestinale, l'inquinamento atmosferico, il fumo, l'ingestione tramite la dieta di metalli, pesticidi e insetticidi, e i fattori di rischio associati alla patologia cardiovascolare e alla sindrome metabolica. È evidente che è impossibile studiare in un modello animale, come il topo, tutti questi fattori così intrinsecamente legati alla vita umana.
Guardando al settore della tossicologia moderna è avvenuto da tempo un progressivo cambiamento di paradigma: negli ultimi vent'anni si è verificata una transizione dall'uso di metodi basati sull'utilizzo di animali, a metodi animal-free, in cui vengono prediletti sistemi in vitro, in silico e che integrati assieme si ritiene possano avere una maggiore rilevanza per lo studio della fisiologia e della tossicologia nell'essere umano.
Esistono inoltre numerosi strumenti e modelli che si possono già oggi utilizzare al posto dei modelli animali per la ricerca sull'Alzheimer.  
L'utilizzo di tessuti ex vivo derivati da biopsie di pazienti, campioni di sangue, campioni di liquido cerebrospinale, tessuti collezionati post-mortem (dopo il decesso del paziente) può permettere l'identificazione di biomarcatori della patologia. Varie tecniche di neuro-immagine sempre più avanzate sono attualmente disponibili, e potrebbero essere utilizzate per studiare in modo non invasivo gli effetti di trattamenti farmacologici e non-farmacologici sulla funzionalità cerebrale. Esistono inoltre numerosi modelli cellulari (in vitro), ad esempio quelli basati sulle cellule staminali indotte pluripotenti (dette iPS) che possono essere ottenute direttamente dai pazienti e convertite in neuroni. Sistemi tissutali ancora più complessi, comunemente chiamati "organ-on-chip" possono essere utilizzati per riprodurre in modo più fedele alcune strutture tissutali del cervello, permettendo un'analisi più realistica dei processi fisiologici e patologici. Per l'analisi di geni e proteine è oggi possibile utilizzare tecnologie definite 'omiche' e modelli computazionali. L'integrazione di tutti questi modelli e strumenti potrebbe permettere la scoperta dei segnali molecolari della patologia, sia al momento della sua insorgenza, che durante la sua progressione, così come l'identificazione di nuovi target terapeutici, e la valutazione dell'efficacia e tossicità di nuovi farmaci riducendo costi e tempistiche. Ovviamente è indispensabile investire nell'ottimizzazione e la qualificazione di questi nuovi modelli in vitro, cosi come nel miglioramento della qualità dei tessuti post-mortem, mediante la creazione di banche di tessuti e cellule che funzionino in maniera efficiente e nel rispetto di norme e tempistiche opportune.
Oltre alle sfide di tipo tecnico, ci sono inevitabilmente anche delle sfide legate ad aspetti di tipo scientifico e normativo, considerando la necessità di nuovi approcci normativi, e di persuadere l'industria, gli enti finanziatori della ricerca e la comunità scientifica in generale della necessità di un cambiamento sempre più in senso olistico, multidisciplinare e integrato. Inoltre, considerando l'importanza dello stile vita nell'insorgenza dell'Alzheimer, si dovrebbe investire molto di più in prevenzione. A livello Europeo vi sono alcuni progetti finanziati dalla Commissione Europea che si stanno già muovendo verso la giusta direzione. 

 

 

Creato il primo embrione pecora-essere umano
Il 19 febbraio scorso alcuni ricercatori dell'Università della California hanno annunciato di avere creato il primo embrione ibrido pecora-essere umano. Nei giorni successivi Giovanni Perini, docente di Genetica e di epigenetica presso l'Università di Bologna dichiarava che: “Oggi siamo già perfettamente in grado di clonare un uomo, ma ci fermiamo prima (…) è solo la questione morale a fermarci, altrimenti, da un punto di vista tecnico ci sarebbero già tutti i mezzi per avviare un test sull'uomo”.

Come siamo arrivati qui? 
Secondo il Churchill’s Medical Dictionary, un clone è una “popolazione di cellule o di organismi derivanti da una singola cellula. Tutti i membri di un clone possiedono lo stesso materiale genetico e sono perciò quasi identici alla cellula o all’organismo progenitore”. Possiamo quindi clonare un organismo intero fino ad arrivare agli animali e all’uomo, ma possiamo clonare anche una singola cellula. 
Clonare una cellula è un intervento molto semplice, non comporta rischi ambientali e non genera sofferenza. La clonazione, infatti, non altera il genoma degli esseri viventi, ma semplicemente lo duplica. Se quindi le cellule clonate si dovessero diffondere nell’ambiente, non danneggerebbero in alcuna maniera gli equilibri biologici. Anzi la clonazione cellulare può rappresentare una valida opportunità nel campo della ricerca.
Discorso completamente differente deve invece essere fatto sulla clonazione animale. Innanzi tutto deve essere attentamente valutata la sofferenza che questo tipo d’intervento provoca. Lo stesso Wilmut, il ricercatore del Roslin Institute di Edimburgo in Scozia, che nel 1997 aveva fatto nascere Dolly, aveva dichiarato che tutti gli animali clonati presentavano malformazioni congenite, una maggiore incidenza di malattie, spesso sterilità e una vita media più breve rispetto ai loro simili non clonati. Se poi l’animale clonato, come spesso succede, è anche stato prima manipolato geneticamente, il problema diventa duplice. La probabilità che presenti un maggior numero di menomazioni e un più alto grado di sofferenza aumenta notevolmente. Inoltre, in questo caso, deve essere considerato anche l’aspetto ambientale, ossia la possibilità che animali clonati e manipolati possano diffondersi in natura, provocando un inquinamento genetico. 
Cosa c’entra però la clonazione con l’embrione ibrido pecora-essere umano?
Tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso diversi centri di ricerca hanno cercato di fare nascere animali geneticamente modificati al fine di ottenere organi per i trapianti umani. Le prime esperienze di xenotrapianti furono però un disastro a causa del violento rigetto che avveniva. Così alcuni centri di ricerca iniziarono a manipolare, soprattutto suini, al fine di “umanizzarli”, ossia inserendo geni umani cercavano di evitare il rigetto. Le speranze furono però sistematicamente disattese poiché non è inserendo uno o più geni umani che rendiamo accettabile dall’organismo umano un organo di origine animale. La strategia pertanto cambiò e s’iniziò a studiare la possibilità di creare delle chimere, ossia degli animali con due o più popolazioni differenti di cellule geneticamente distinte che sono originate da diverse specie.
Ed ecco che siamo arrivati ai giorni nostri. Nel 2017 un gruppo di ricercatori del Salk Institute for Biological Studies (California) è riuscito a far crescere il pancreas di un topo all’interno di un ratto. Sempre l’anno scorso l’equipe dell’Università della California aveva creato un ibrido maiale-uomo, ossia una chimera, in cui 1 cellula su 100.000 era umana, mentre nel recentissimo caso dell’ibrido con la pecora le cellule umane erano 1 su 10.000. Bisogna ricordare che gli embrioni, in entrambi i casi, sono stati distrutti dopo ventotto giorni poiché la legge non permette di andare oltre, tuttavia se tali ricerche sono state condotte, significa che gli studiosi sono convinti che il limite temporale possa essere in futuro superato. 
Quando s’iniziò a creare i primi animali clonati, tutti giurarono che mai si sarebbe passato agli esseri umani, ma oggi ciò è possibile, ammesso che non sia già avvenuto. Inizialmente non si doveva provare a clonare gli esseri umani perché eticamente inaccettabile e tecnicamente impossibile. Ora è tecnicamente possibile, ma l’impressione è che, per una parte della comunità scientifica, l’ostacolo non sia più etico ma normativo, ossia le leggi lo vietano, ma sappiamo che le leggi si possono cambiare.
Temo che anche in questo caso, come per quanto riguarda la sperimentazione animale, gli enormi interessi economici possano convincere sia i legislatori, sia l’opinione pubblica che quanto fino a un recente passato era eticamente inaccettabile, se non ripugnate, oggi potrebbe essere accettabile in virtù di benefici per la nostra specie, per altro tutti da dimostrare. Insomma, il fine che giustifica i mezzi.
La storia però c’insegna quanti disastri abbiamo compiuto seguendo proprio il fine che giustificava i mezzi.

Dr. Stefano Cagno
Dirigente medico ospedaliero

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Motivi per non consumare uova
1. Per non tritare vivi i pulcini maschi 
Negli stabilimenti di incubazione nascono ogni giorno metà pulcini maschi e metà femmine: i maschi sono considerati inutili, perché non produrranno uova, dunque vengono gettati vivi in un tritacarne oppure soffocati. Questo vale per ogni tipo di allevamento.
2. Per non amputare il becco alle femmine 
Le femmine subiscono l'amputazione del becco con una lama rovente, per evitare che, da adulte, impazzite per la vita in gabbia, si attacchino e feriscano tra loro.
3. Per non imprigionare a vita le galline 
Le galline sono imprigionate in piccolissime gabbie e anche quelle allevate "a terra" sono rinchiuse in spazi molto ristretti e affollati, vivono sempre al buio, immerse in un'aria irrespirabile. Soffrono di forti dolori alle zampe, perdono le piume per carenza dei nutrienti essenziali, rimangono intrappolate tra le sbarre. Dopo al massimo due anni, vengono portate al macello, appese a testa in giù sui ganci e sgozzate, spesso del tutto coscienti, o asfissiate con la CO2. In natura una gallina può raggiungere gli 8 anni di età. Negli allevamenti la durata di vita si riduce a 5 settimane e mezzo (per quelle da carne) e a 1 anno e mezzo/2 anni per le ovaiole. 

Allevamenti in Svizzera
In Svizzera è permesso l'allevamento fino a 10 polli in 1m2. La differenza tra l'allevamento all'aperto e in gabbia è solo un minimo di spazio supplementare. L'ordine gerarchico delle galline funziona solo in allevamenti con al massimo 90 esemplari, quindi le galline vivono in uno stato di stress permanente. La maggioranza delle uova importate in Svizzera proviene da allevamenti in batteria e sono soprattutto utilizzate per prodotti confezionati. In natura le galline depongono al massimo 20 uova all'anno; nel nostro Paese ne depongono più di 300. Le galline negli allevamenti Bio vivono in spazi meno affollati, tuttavia anche in questi allevamenti i pulcini maschi vengono considerati privi di valore commerciale. In Svizzera vengono uccisi 2,6 milioni di pulcini l'anno.

4.Sono un concentrato di colesterolo
Il 70% delle calorie delle uova proviene dai grassi, in gran parte grassi saturi, e ogni uovo contiene 200 mg di colesterolo. Grassi saturi e colesterolo sono tra i maggiori responsabili dell'arteriosclerosi, che causa infarti e ictus.
5. Aumentano il carico di proteine 
Le uova non hanno nutrienti utili. Di fatto, l'unico nutriente che contengono sono le proteine. La dieta media contiene il triplo delle proteine che ci sono necessarie, quindi vanno evitate. Una dieta 100% vegetale contiene tutte le proteine necessarie.
6. Rischio diffusione della Salmonella
Questo batterio vive benissimo nel guscio poroso delle uova, soprattutto di quelle che provengono da allevamenti affollatissimi. La Salmonella è tra i batteri più diffusi che causano intossicazione alimentari, con sintomi quali diarrea, vomito e crampi addominali.

L'articolo completo lo trovate alle pagine 18 e 19